Lo scorso 2 giugno si è spenta in Olanda la 17enne Noa Pothoven; non appena riportato l’accaduto dal portale olandese “Het Laatse Nieuws”, sul web si è scatenato un giro di notizie sui fatti, accompagnate anche da leggere distorsioni sul reale svolgimento degli eventi.
La prima ondata di notizie secondo cui a Noa sarebbe stata concessa l’eutanasia dallo stato olandese a causa di una grave depressione dovuta agli abusi sessuali subiti, sarebbe successivamente stata smentita. La ragazza, infatti, si sarebbe lasciata morire di fame in casa propria, sotto assistenza medica e in compagnia della propria famiglia.
Nonostante la divisione tra chi sostiene il diritto di disporre liberamente della propria vita e chi invece contesta tale diritto, la notizia ha indubbiamente lasciato senza fiato tutta l’opinione pubblica. La storia di una ragazza che a soli 17 anni decide di porre fine alla propria esistenza perché non riesce più a sentirsi viva, genera un enorme senso di fallimento. E solleva molti interrogativi.
La prima domanda che sorge spontanea è: perché? Perché in quello che dovrebbe essere il momento più entusiasmante della propria vita, Noa non riusciva a liberarsi da quel dolore che la opprimeva a tal punto da farle desiderare di smettere di vivere? Perché nessuno è riuscito ad aiutarla a uscire da questo tunnel? Perché nessuno è riuscito a farle cambiare idea?
Adesso che il fatto è compiuto viene istintivo cercare di capire chi abbia la responsabilità di tale gesto: lo Stato, che non le ha fornito un’adeguata assistenza medica nella depressione, oppure la famiglia, i genitori che silenziosamente l’hanno accompagnata in questa scelta?
Questa tragedia mi porta a riflettere su quanti o quante Noa Pothoven quotidianamente incontriamo senza nemmeno saperlo, mentre siamo travolti dal vortice degli impegni quotidiani e dei nostri problemi personali, piccoli o grandi che siano.
La depressione, il più grave male dell’uomo moderno, si muove silenzioso mietendo un numero sempre maggiore di vittime, complice l’indifferenza e lo “stordimento” provocato dall’enorme quantità di cose inutili e superficiali verso le quali ormai rivolgiamo la nostra attenzione. Quando ad essere colpiti sono i più giovani, quando vediamo un numero crescente di suicidi tra gli adolescenti, allora iniziamo a pensare – con timore- che il problema potrebbe avere dimensioni più grandi di quel che pensiamo.
Nonostante gli enormi progressi in ambito medico, la depressione è una di quelle malattie che spesso non ha una cura. Ci troviamo disarmati di fronte ad un dolore tanto grande, a delle domande accompagnate da ferite tanto profonde a cui non siamo in grado di dare una risposta. Allora forse diventa più semplice alzare le mani e accettare la nostra impotenza dicendo che in fondo ognuno di noi ha il diritto di disporre della propria vita come meglio crede. Così scegliamo di accompagnare queste persone verso l’unica soluzione possibile per smettere di soffrire: la morte.
E in fondo è la verità che noi come esseri umani non abbiamo risposte alle domande più difficili della nostra esistenza, che non siamo in grado di curare le ferite che vengono inferte al nostro cuore durante il cammino. Bisognerebbe ricordare a noi stessi e a chi soffre, che la vita ha un valore inestimabile e che un rimedio al dolore esiste.
Basterebbe in mezzo al caos, ricordarsi di guardare in alto, a colui che 2000 anni fa ha deposto la propria vita per liberarci dal dolore e dalla morte: Gesù.
Articolo scritto da Giorgia || Redazione Purex