Uno fra i dibattiti più accesi nella società occidentale contemporanea – e non solo – riguarda l’identità di genere. Ne sentiamo continuamente parlare in termini di schieramenti, di lotte culturali, di prevaricazione, di diritti e di libertà. La teoria dell’identità di genere trova il proprio presupposto nell’idea che il genere di una persona sia slegato e svincolato dal suo sesso alla nascita. Inoltre, lo schema binario che la nostra società utilizza per definire l’identità di genere, ovvero maschile/femminile, sarebbe derivato da una costruzione artificiale, dunque socialmente determinato e scorretto.
I sostenitori della teoria del genere hanno esteso la possibilità di riconoscersi in un genere piuttosto che in un altro, a decine di categorie differenti tra cui agender, transgender, two-spirit, bigender, pangender, e molte altre.
Di cosa ci parla questa suddivisione? Perché abbiamo bisogno di così tanti generi?
L’uomo ha una naturale tendenza a creare categorie ed etichette per conoscere la realtà. Riconduciamo fenomeni, cose e persone a categorie che conosciamo, in modo da poter semplificare la nostra realtà e sentirci sicuri.
Forse il tentativo di diffusione della teoria del genere è legato al bisogno umano di mettere ordine in un mondo tanto caotico.
L’uomo ha la tendenza naturale a categorizzare ciò che incontra sul proprio cammino. La realtà è troppo ampia e complessa per poter essere conosciuta a fondo, ma inserire i fenomeni in un numero limitato di categorie ci permette di renderli riconoscibili e comprensibili. Conoscere ogni persona sulla base delle sue caratteristiche personali, si rivelerebbe troppo faticoso, quindi semplificare la realtà incasellando ogni persona in una o più categorie, ci permette di sentirci al sicuro, di credere di conoscere ciò che ci circonda e di poter prevedere il comportamento altrui.
Questo meccanismo non è sbagliato di per sé, ma diventa pericoloso quando ci spinge a concepire l’umanità in termini categorici, tralasciando l’importanza dell’individualità. Questo ci impedisce di riconoscere il valore di ogni singola persona per ciò che è, piuttosto che per le categorie di cui crediamo faccia parte.
Anche nel pensare a noi stessi spesso facciamo ricorso all’uso di categorie, e pensiamo a noi stessi anche in base alle etichette che possiamo attribuirci.
La bandiera arcobaleno è diventata il simbolo di questa concezione dell’umanità, e proprio come in un arcobaleno, a risaltare non sono le sfumature ma categorie di colori. Spesso la lotta per il riconoscimento e la legittimazione della diversità si trasforma silenziosamente nel suo esatto opposto, sfociando in tentativi di omologazione e categorizzazione, sminuendo, svalutando e mortificando la diversità e unicità di ogni essere umano e ricercando un’etichetta e una definizione alle quali le persone possano/debbano adeguarsi.
Per quanto riguarda l’idea di una separazione fra sesso biologico ed identità di genere, negare che la struttura genetica, ormonale e neurobiologica possa avere un influenza a priori rispetto a quella esercitata dalla società sullo sviluppo individuale, significa vedere solo ciò che si desidera. Da tempo è ormai riconosciuto il ruolo dell’interazione tra fattori genetici/biologici e ambientali nella strutturazione della personalità, e fingere che la biologia non abbia alcun ruolo nel determinare la struttura psichica degli individui, è perlomeno ingenuo.
Forse la cosa migliore sarebbe tollerare l’idea di non conoscere, accettare che il mondo umano sia fatto di sfumature di personalità e che incasellarle in categorie significhi semplicemente sopprimere la libertà umana di essere ciò che si è. Accettare gli altri significa imparare ad amarli come persone, per ciò che sono e non per una bandiera che sventola sulla loro testa.
Articolo scritto da Thomas || Redazione purex